Lo scopo è non riconoscere nulla. I parametri a disposizione sono: cultura, lingua, etnia, ambiente, contesto. Allora prendi un treno che parte da Pechino, posti a sedere finiti. Tre giorni dopo sei a Xining, all’alba tai chi e fuochi d’artificio. Poi, alla fine, la stazione dell’autobus la trovi. L’indomani mattina si parte.

Quindici ore. Pausa, di notte, nel deserto. Entri in una cucina e indichi cosa vuoi mangiare, tecnica che poi adatti per il resto del viaggio per non puntare il dito su una serie di caratteri casuali. Altre quindici ore. La strada di terra battuta ha lasciato spazio a buche alte mezzo metro. Il sedile è più che altro una panca. Polvere, notte.

Ti lasciano alle sei del mattino a un incrocio di Yushu, città ricostruita dopo il terremoto del 2010. All’incrocio ci sono tre minivan. Aspettano gli ultimi ospiti prima di addentrarsi nel Sichuan. Qualche momento di tensione, si litigano i pochi soldi che poi in effetti chiederanno per far tappa a Manigango.

Altre dieci ore, seduto nel sedile reclinabile del bagagliaio, zaino sulle ginocchia. È il 15 agosto, fuori nevica. In mezzo all’altopiano della contea di Dêgê, a un certo punto l’autista ti fa scendere. C’è un sentiero che attraversa il fiume e si perde nei campi. “Di là”, indica con il dito. Sta ancora nevicando. Arriva la sera. Entrato in paese scopri che non è un paesino come tutti gli altri. La strada principale è completamente divelta dalle ruspe: buche profonde quattro o cinque metri. Si cammina su passerelle fatiscenti, qualche lampadina facilita il passaggio. La locanda in cui ti sistemi è una coccola al cuore. Comfort zero, accoglienza tremila. La figlia di sette anni della proprietaria tibetana ti prende come giostra e alla fine vai a letto felice. Marco, amico di sempre e compagno di viaggio lo sembra anche di più.

Lo scopo iniziale ormai non conta.
Superato e di molto, hai trovato il punto di partenza.

GET LOST, STAY.